Max va veloce
Faceva il pilota di rally e ora “guida” Federalberghi Veneto
Con la famiglia ha gestito il Treviso, per tutti l’hotel della stazione dei bus di piazza Drago. Ora è uno stimato albergatore, con estensione anche a Venezia. Dopo avere guidato l’Associazione Jesolana Albergatori, da poco è stato nominato a capo di Federalberghi Veneto. Eppure da piccolo…
Com’era Massimiliano Schiavon da piccolo?
«Un ragazzino che voleva fare tutto tranne che l’albergatore. Anzi, odiavo questo lavoro. Quando cresci in una famiglia di albergatori ci sono aspetti belli e brutti e tra questi ultimi il fatto, ad esempio, che vedevo gli amici andare in vacanza con i genitori, mentre per me d’estate non si poteva. Inoltre, la nostra casa era letteralmente come un albergo: la mia è sempre stata una famiglia che socializza molto, per cui in casa c’era sempre gente ed a me sono mancati dei momenti “miei” con i genitori. Ed ero geloso di questo atteggiamento che avevano con gli altri».
Ma è vero che ha corso nel mondo del rally?
«Certamente. Verso i 14 anni ho iniziato ad appassionarmi molto alle auto ed al mondo dei motori, un ambiente che mi ha affascinato ed accompagnato per qualche anno. Ho iniziato quasi per scherzo facendo un corso per navigatore con un amico jesolano: ottenendo il punteggio massimo, vinsi la licenza per iniziare a correre. Ricordo che, con un amico rallysta, Sandro Giacchetto comprai a pezzi una vettura, che montammo. Grazie ad una persona, entrai in questo mondo. Ho fatto anche gare a livello nazionale. Gareggiavamo con la Mirano Rally e ci appoggiavamo alla Jesolo Motors, da Guido, che è stato un po’ un maestro.
A casa come la presero?
«Inizialmente con un po’ di preoccupazione, poi mi hanno dato fiducia, anche perché hanno visto che si era molto attenti alla sicurezza».
Cosa le ha insegnato questa esperienza?
«L’importanza di lavorare in un team. Perché non sei da solo: dietro a te c’è tutta una squadra che ti segue, che fa sacrifici pazzeschi e che condivide gioie e dolori».
Qual è stata la sua prima esperienza professionale?
«La gestione del parcheggio dell’hotel Treviso. Abusivo, nel senso che mio papà non lo sapeva. Nell’area che avevamo, abbassavo la sbarra e la gente che passava mi chiedeva se poteva parcheggiare; io acconsentivo e mi prendevo la mancia. Avevo fatto il mio giro di clienti. Fino a quando incappai in un funzionario della finanza che mi beccò con le mani sul fatto. Finì che richiese l’intervento di mio papà Giorgio (detto Franco) e la cosa si risolse bonariamente. Ma finì anche la mia carriera da parcheggiatore». (sorride)
E quando iniziò quella di albergatore?
«È stato quando mio papà si ammalò: era il 23 dicembre del 1993. Il giorno dopo, vigilia di Natale, lo ricordo come fosse ieri, sedevo sulla sedia di mio padre (di pelle marrone, che portava anche i segni del tempo e che lo aveva accolto per molti e molti anni) e non sapevo da che parte girarmi. Avevo 25 anni. Ricordo il silenzio, le tante carte che vedevo ovunque mi giravo… Perché un conto era fare qualche lavoretto, un altro essere catapultato nella stanza dei bottoni, nella gestione di una azienda aperta tutto l’anno. È vero che mio papà era un accentratore, ma capii che qualcosa, negli anni avevo assorbito. Forse sono stato uno dei pochi esempi di ricambio generazionale».
Poi il papà si è ripreso.
«Sì, ma per un anno e mezzo sono stato da solo. E passavo le notti a pensare a quel bambino che non voleva fare l’albergatore. Ora posso dire che è stata la mia fortuna. Ma chissà cosa avrei fatto se non fosse successo quell’episodio: avendo la passione per i motori, magari avrei aperto una concessionaria…».
Che ruolo ha avuto sua moglie Alessandra, con cui condivide la vita da molti anni?
«Fin dai tempi del rally è sempre stata al mio fianco. Direi che Alessandra è stata determinante. La ringrazierò sempre per la scelta che fece allora, di lasciare il suo lavoro (era occupata in un importante studio contabile) e di seguirmi nella mia nuova avventura alla guida di un hotel».
Quali sono stati i momenti più difficili?
«Tanti. Pensate solo al fatto che a 25 anni, senza avere avuto esperienze, mi trovai a gestire un’azienda che lavorava tutto l’anno, con una trentina di dipendenti. Inoltre, mia sorella Monica, più grande di me, aveva già un suo lavoro e mia mamma Piera, abbreviativo di Pierina, assisteva mio papà. I momenti di sconforto sono stati tanti, ma li ho saputi superare».
Quando si è sentito orgoglioso di quanto fatto?
«A 26 ho gestito (affiancato da mio papà, che si era un po’ ripreso) la trattativa di acquisizione del Treviso. Poi quando volli un hotel fronte mare, che per me significava giocare in Serie A. In questo ebbi la fiducia dell’avvocato Tagliapietra, una figura importante per me: a 30 anni mi dette la possibilità di prendere in mano la gestione di un 4 stelle. Ma anche quando diventai presidente Aja: era la certificazione che ce l’avevo fatta. Ricordo l’assemblea: avevo di fronte mio papà e pronunciai una frase che lui amava ripetere, ovvero: “Nella strada dove non si vuole camminare, spesso si corre”. Che è quello che è successo».
C’è qualcuno che si sente di ringraziare?
«Tra i “grandi vecchi” direi Gino Franzi, oltre all’avvocato Carlo Tagliapietra. Ma direi che molto mi è servito guardare i colleghi, come Luca Boccato, nell’applicare un nuovo modo di fare l’albergatore».
Lei oggi gestisce più strutture: spera che i suoi figli la seguano?
«Davide sta ripercorrendo alcune mie passioni e Mattia delle altre (più legate alla tecnologia), ma li lascerò liberi di scegliere il loro futuro: importante è che facciano quello che piace di più a loro. Ecco, rispetto a mio papà, non so se sarò capace di farli sbagliare, come lui fece con me».