Sono Francesca
La conduttrice del programma “Belve”, Francesca Fagnani, è in libreria con “Mala, Roma criminale”, un libro d’inchiesta su ciò che nella capitale c’è, ma non si vede.
Francesca, si è scritto in questi giorni “La Fagnani è tornata al giornalismo d’inchiesta”. In realtà questo è un mondo che ti è sempre appartenuto, anche con “Belve”. È così?
«Il tono è diverso ma, tutto sommato, per quello che mi riguarda, lo studio e l’approfondimento della notizia appartengono allo stesso metodo. Mi sento una cronista e continuo ad essere una cronista e questo mi ha insegnato ad approcciare senza pregiudizi. ».
Mala è un libro che parte da lontano…
«È il risultato di un anno di lavoro, che mi è servito per raccogliere e approfondire materiali, fascicoli, inchieste condotte a Roma. Uno studio molto approfondito, fin dal primo vagito. Ho cercato di fornire al lettore tutte le carte affinché si possa formare un giudizio».
Non è un libro sullo spaccio, ma sulla droga, sui “cartelli”, sulle organizzazioni criminali?
«Si chiama “Mala, Roma Criminale”, ma potrebbe chiamarsi “narcos” perché questo è un libro che definisce questa città; è un libro sul narcotraffico. Il fatto è che non c’è una percezione di pericolosità. Basti pensare che, mentre in altre parti d’Italia la situazione è ben definita su chi controlli la zona, a Roma ci sono tutte le mafie, qua ci hanno sempre mangiato tutti».
Quello che emerge è anche un mondo cruento, molto violento, con alcuni passaggi (ben raccontati) che sembrano romanzati. È tutto reale ciò che racconti?
«Certo ed è impressionante, per questo dico sempre che non sembra Roma. Durante questo anno di lavoro, ho letto tutto il materiale che ho avuto la possibilità di avere, ho unito i punti ed ho fatto emergere un livello di violenza e di ferocia inimmaginabile. È un libro che sembra un romanzo, ma nel quale non ho cambiato neppure un nome, ho usato tutti quelli veri, perché rappresentavano la fotografia della realtà».
Ma questo non ti ha esposto a dei rischi? Hai timore per le conseguenze?
«Diciamo che per il tipo di lavoro che ho fatto in questi anni, o lo realizzavo così o neanche lo facevo, non aveva senso. La nostra preoccupazione deve sempre essere rivolta ai giornalisti locali che raccontano certe dinamiche e che magari non sono protetti neanche dai loro direttori e che non hanno la, chiamiamola, protezione mediatica che ho io».
Qual è il progetto che ti ha appagato di più?
«Tendo a pensare che quello che sto facendo in quel momento sia la cosa più bella e importante. Ho lavorato a questo libro fin dall’omicidio di Fabrizio Piscitelli; un progetto particolarmente ambizioso».