La costa veneziana supera quella romagnola
È quanto emerge dallo studio Sociometrica
La costa veneziana supera quella romagnola in fatto di ricchezza prodotta. E’ quanto emerge dallo studio si Sociometrica, illustrato da Antonio Preiti, che ha curato lo stesso, nell’ambito del convegno organizzato da Federalberghi Veneto. L’incontro si è tenuto nella Sala Azzurra del PalaExpomar dove, fino a mercoledì 1 febbraio, si svolge la Fiera dell’Alto Adriatico. La kermesse fieristica è organizzata da Venezia Expomar Caorle, Associazione Jesolana Albergatori, comuni di Caorle e Jesolo. Il turismo produce ricchezza, è noto. La genera in maniera diffusa, perché può contare su un effetto moltiplicatore che produce un impatto economico negli altri settori dell’economia.
Quello che non era noto finora, è l’impatto del turismo sui singoli comuni. È solo a questo livello che si può capire quanto conta il turismo nelle comunità locali. Un recente studio di Sociometrica ha finalmente calcolato il valore aggiunto, ovvero la ricchezza collettiva, creata dal turismo in ogni comune italiano, stabilendo una graduatoria che mostra conferme e sorprese.
Il rapporto mostra che l’economia dell’ospitalità coinvolge il 41,9% dei comuni italiani e si delinea come una piramide con una larghissima base: l’83% del valore aggiunto turistico nazionale si distribuisce nei primi 500 comuni.

Quello che non era noto finora, è l’impatto del turismo sui singoli comuni. È solo a questo livello che si può capire quanto conta il turismo nelle comunità locali. Un recente studio di Sociometrica ha finalmente calcolato il valore aggiunto, ovvero la ricchezza collettiva, creata dal turismo in ogni comune italiano, stabilendo una graduatoria che mostra conferme e sorprese.
Il rapporto mostra che l’economia dell’ospitalità coinvolge il 41,9% dei comuni italiani e si delinea come una piramide con una larghissima base: l’83% del valore aggiunto turistico nazionale si distribuisce nei primi 500 comuni.
COSA DICE LO STUDIO DI SOCIOMETRICA
È di 350 milioni di euro la stima del reddito inespresso che la collettività riminese avrebbe potuto generare ogni anno, se solo avesse riaperto o sostituito le camere alberghiere chiuse negli ultimi tempi. È la conclusione dello studio dedicato all’impatto economico del turismo a Rimini, ”Lo Sviluppo che manca”, presentato il 19 gennaio al Grand Hotel e realizzato da Sociometrica, con la collaborazione di Teamwork Hospitality. Secondo lo studio, Rimini ha creato un modello di business basato su piccole proprietà e ha reso accessibili i servizi alberghieri a fasce sociali sempre più grandi, conquistando la leadership nazionale nell’industria dell’ospitalità. Nel corso degli anni il capoluogo romagnola ha rappresentato un modello ampiamente ricalcato da decine e decine di destinazioni turistiche in Italia e dovunque.
Tuttavia, negli ultimi anni, il numero di alberghi e camere alberghiere a Rimini è diminuito sensibilmente, passando da oltre 1.600 alberghi negli anni ‘70 a meno di mille al giorno d’oggi. Gli alberghi a Rimini sono rimasti sopra la soglia delle 1.500 unità fino al 1991, anno della seconda ondata di mucillagini, quando in due anni si sono persi circa 200 alberghi. La caduta è però continuata anche negli anni lontani, e anche molto lontani, da quell’evento: nel 1998 si scende sotto la soglia delle 1.300 unità; nel 2007 sotto la soglia delle 1.200 unità e poi via via con perdite minime, ma continue, praticamente in ogni anno. Nel 2014 il totale degli esercizi alberghieri era di 1.093, si tratta perciò di circa 500 strutture in meno rispetto ai “tempi d’oro”, perciò circa un terzo degli alberghi è “scomparso”, senza che ci fosse alcun accorpamento, perché nel 1998 c’erano sul mercato 41.227 camere e nel 2021 solo 34.993, perciò gli alberghi hanno chiuso e basta, senza recupero delle camere perdute in strutture più grandi o con nuove strutture.
Tuttavia, negli ultimi anni, il numero di alberghi e camere alberghiere a Rimini è diminuito sensibilmente, passando da oltre 1.600 alberghi negli anni ‘70 a meno di mille al giorno d’oggi. Gli alberghi a Rimini sono rimasti sopra la soglia delle 1.500 unità fino al 1991, anno della seconda ondata di mucillagini, quando in due anni si sono persi circa 200 alberghi. La caduta è però continuata anche negli anni lontani, e anche molto lontani, da quell’evento: nel 1998 si scende sotto la soglia delle 1.300 unità; nel 2007 sotto la soglia delle 1.200 unità e poi via via con perdite minime, ma continue, praticamente in ogni anno. Nel 2014 il totale degli esercizi alberghieri era di 1.093, si tratta perciò di circa 500 strutture in meno rispetto ai “tempi d’oro”, perciò circa un terzo degli alberghi è “scomparso”, senza che ci fosse alcun accorpamento, perché nel 1998 c’erano sul mercato 41.227 camere e nel 2021 solo 34.993, perciò gli alberghi hanno chiuso e basta, senza recupero delle camere perdute in strutture più grandi o con nuove strutture.

“Rimini ha un posto formidabile nell’immaginario collettivo – ha sostenuto Antonio Preiti, direttore di Sociometrica e autore dello studio – per vincere deve collegare lo “share of dream”, la quantità di sogno che riesce a suscitare, soprattutto al livello internazionale, con lo “share of market”, la capacità di rispondere al mercato. Rimini aveva un tempo quasi la metà dei turisti stranieri, quota che oggi è attorno al 20%. Può essere la spiaggia d’Europa, ma deve trovare un messaggio più universale, che sappia riaffascinare il mercato. Con l’affermarsi dello stile italiano nel mondo, che con la sua identità immaginifica Rimini ha contribuito a formare, si aprono nuove grandi prospettive per la città”.