Due codici per le istituzioni: abbigliamento e linguaggio
Il sindaco di San Donà di Piave, Alberto Teso, intende proporre un dress code (codice di abbigliamento) per i consiglieri comunali. Avrà le sue buone ragioni. Riprendo la notizia come spunto. Ho una venerazione per le Istituzioni (sì, con la I maiuscola), le persone e i luoghi che le rappresentano. Rispetto (che va oltre il consenso o il dissenso) è dovuto al sindaco e ai consiglieri comunali, al di là del loro profilo politico, per la responsabilità di cui li abbiamo caricati con il nostro voto. Rispetto è dovuto all’aula consigliare (non “sala”, ma “aula” che la Treccani definisce come luogo per decisioni importanti e solenni) dove si esercita la democrazia. Perciò vi si entra – consiglieri e cittadini – vestiti in maniera appropriata. Questo comportamento, d’obbligo per le aule parlamentari, ma non lo è ovunque per quelle regionali e comunali sostituito da una raccomandazione. A volte disattesa.
Ma, oltre a quello dell’abbigliamento, c’è necessità di un altro codice (morale anche se non scritto): quello del linguaggio. Il confronto, la dialettica, la polemica sono modi con cui parlamentari e consiglieri esprimono il loro pensiero. È un loro diritto/dovere che va esercitato con il rispetto dovuto ai colleghi, ma anche, lo sottolineo, a noi cittadini-elettori. E non mi riferisco al ricorso all’insulto o alla volgarità (che attengono alla buona educazione) ma a quel linguaggio assolutamente vuoto di contenuti, che spesso mistifica la verità dei fatti, studiatamente costruito per ottenere un effetto sulla opinione pubblica: un bel petardone da fuochi d’artificio in luogo di una riflessione argomentata, offendendo così le Istituzioni e noi cittadini-elettori. Ricordino questi signori che noi non siamo tifosi da eccitare, ma cittadini che hanno il diritto di capire come viene usata la fiducia che abbiamo in loro riposta con il nostro voto.









