Pupi Avati – Il mio “Ciak!” a Jesolo

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Pupi Avati nella nostra città: «Cercavo una zona simbolo dell’Adriatico».

Si sono concluse lo scorso giugno, dopo circa due settimane di lavoro, le riprese a Jesolo del film “Nel tepore del ballo” di Pupi Avati, prodotto da DueA Film, Minerva Pictures e in collaborazione con Rai Cinema. Il regista, recentemente premiato con il David di Donatella alla carriera, ambienta una storia intensa e personale tra passato e presente. Il film, classificato tra il drammatico e il thriller dalla casa di produzione Minerva Pictures, vanta un cast di prim’ordine: Raoul Bova, Massimo Ghini, Isabella Ferrari, Lina Sastri, Giuliana De Sio, Sebastiano Somma, Pino Quartullo, Morena Gentile e Massimo Bonetti.

Perché Jesolo come ambientazione della sua ultima opera?
«Cercavo un tratto di Adriatico rappresentativo di un certo mondo e di una certa cultura, soprattutto in relazione alla Germania. La storia parte da un bagnino – interpretato da Raoul Bova – icona dell’Adriatico e molto amato dalle turiste tedesche. Suo figlio, interpretato da Massimo Ghini, dopo un grave incidente finanziario e i  problemi con la giustizia, è costretto a tornare a Jesolo, il luogo delle sue origini».

Una location particolare: cosa l’ha colpita di Jesolo?
«Ha una peculiarità specifica: sembra una città nata tutta in un giorno. Abbiamo trovato una casa fronte mare dei primi del Novecento incastrata tra due palazzoni».

E l’accoglienza degli jesolani?
«Molto positiva. Si tratta di persone molto legate alle tradizioni, sia culturali che culinarie, e hanno accolto con sorpresa e affetto il nostro lavoro. Mi auguro che altri colleghi raccolgano questa proposta per realizzare dei film a Jesolo».

Dopo le riprese in città come procederà la lavorazione del film?

«Registreremo a Roma per tre settimane. A seguire c’è il lavoro di produzione e quello legato alla preparazione sonora. Il film uscirà la prossima primavera».

Come giudica il cinema italiano oggi?
«Cerca di raccontare la nuova realtà del Paese ma, spesso, si lascia sedurre da una visione più generica dell’Occidente. I modi di vivere si omologano e con essi rischiamo di perdere il legame con le nostre radici. Stiamo rinunciando a raccontare le nostre origini, a riconoscere i debiti verso chi ci ha preceduto».

C’è ancora spazio per un racconto intimo, umano, come quello che ha spesso caratterizzato le sue opere?
«Sempre meno. Quando si nega l’individuo in nome del mercato e dell’omologazione, si perde il senso dell’“io” e delle sue sfumature più profonde. Fino a pochi decenni fa, si poteva raccontare sé stessi, aiutare anche gli altri nei momenti difficili, attraverso forme nobili come la poesia o il cinema».

E riesce, il pubblico, a confrontarsi con quelle figure fragili e quelle persone deboli che lei spesso racconta?

«Anche in questo caso, sempre meno ed il lavoro che facciamo è difficilissimo, con un vento contrario crescente. D’altra parte ho una certa età e mi devo rassegnare a diventare anacronistico».

C’è spazio per i giovani nel cinema?
«Lo spazio va conquistato. I giovani devono avere il coraggio di affrontare il mare aperto. La mia generazione ne ha avuto. Oggi vedo che sono spesso più spaventati che ispirati».

La sua prossima pellicola?

«Pensare al futuro, alla mia età, richiede incoscienza. Io vivo solo sul set, non vado in vacanza. Ma questa è la vita che ho scelto, non posso lamentarmene».

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