Non dimentichiamo di amare
A dicembre dell’anno scorso avrete forse sentito anche voi la notizia della nomina di Mattia Piccoli, di 12 anni, ad Alfiere d’Italia dal presidente Sergio Mattarella. Motivazione, essere il custode del suo papà, Paolo, al quale a soli 43, è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Mattia ha cominciato così ad aiutare il padre nelle cose più semplici come vestirsi, mangiare, orientarsi nello spazio e nel tempo. Mattia è un nostro vicino. Non solo perché vive con la famiglia a Concordia Sagittaria (a pochi chilometri a Jesolo), ma perché potremmo essere tutti nella sua situazione. Il percorso di Mattia, di suo fratello Andrea e, soprattutto, della mamma Michela, è stato tutto in salita.
Forse anche per la necessità di metabolizzare questo carico di dolore e sofferenza, Michela ha scritto un libro “Un tempo piccolo”, dove racconta le difficoltà che devono affrontare tutti i famigliari legati a persone con Alzheimer. Anche Mattia ha messo su carta i suoi sentimenti con brevi poesie cariche di tenerezza ma anche lucida consapevolezza. Quando abbiamo parlato con loro, l’immagine che ne abbiamo ricevuto è stata di forza, legata ad un amore tenerissimo per Paolo, che fa superare lo sconforto e l’amarezza, almeno un poco, anche ad un bambino di 12 anni.

Ciao Mattia. Quando ti sei accorto che qualcosa era cambiato per tuo papà?
«All’inizio non facevo caso alle stranezze di mio papà, come quando si dimenticava di venire a prenderci all’asilo o a scuola; poi ho iniziato a vedere che aveva sempre più difficoltà ed è stato normale per me dargli una mano come potevo».
Hai detto “Io non volevo essere un Alfiere. Volevo solo un papà”. Quando pensi a tuo papà, quali sono i tuoi ricordi preferiti?
«Mio papà è un grande papà e gli voglio tanto bene. Il mio ricordo preferito è quando ero piccolino e lui, tornato dal lavoro, mi ha portato sul suo scooter a prendere un gelato».
Come vivono le tue difficoltà i tuoi compagni?
«Non sempre i miei compagni capiscono le difficoltà di chi ha una malattia grave in famiglia e vedo che anche gli adulti fanno fatica e spesso non capiscono che siamo sempre in difficoltà a gestire tante cose e la mamma lavora sempre e corre tanto per sistemare tutto. Io non sono diverso dai miei coetanei, ho solo fatto un atto di amore verso il mio papà».
Cosa significa per te “essere forte”?
«Per me essere forte vuol dire stare a fianco delle persone bisognose, essere gentili e mettersi a disposizione con l’aiuto».


Invece tu, Michela, quali pensi siano le misure necessarie da mettere in campo in aiuto alle famiglie con casi come il vostro?
«Partendo dal presupposto che la demenza è una malattia terribile a qualsiasi età, va detto che ad esordio precoce, quando ci sono figli piccoli e non autonomi, si sta ancora lavorando, ci sono ancora le rate del mutuo da pagare, diventa giocoforza una cosa devastante. Le famiglie hanno bisogno di supporto sia in campo psicologico, sia dal punto di vista economico. Le strutture, i centri diurni sono ancora troppo esosi per la famiglia. Va assolutamente attuata una presa in carico degli aiuti perché la malattia porta nel baratro non solo la persona ammalata ma anche la o le persone che se ne occupano. Ho avuto tante pacche sulle spalle, ma dal punto di vista pratico pochissimi aiuti».
Quale pensi sia l’importanza della vicinanza fisica e sociale delle persone con difficoltà con il resto della società?
«È importante favorire l’inclusione sociale delle persone con demenza. Bisogna abbattere lo stigma che avvolge la malattia, far sentire la persona malata ancora parte di un progetto di vita, cercando di avvicinarci noi al loro mondo e non il contrario».
C’era una volta un papà
Mattia
con gli occhi luccicanti di felicità…
Ho cercato di aiutarti, supportarti
e addirittura di salvarti…
Papà mio resisti,
ho bisogno che tu ancora mi assisti,
che riprendiamo ad incontrarci,
e ad abbracciarci,
mentre tu mi terrai stretta la mano,
e mi accompagnerai lontano
in un tempo tutto nostro,
senza più nessun mostro.