Marco, il chirurgo in carrozzina (con il trucco)
Era un medico ortopedico e voleva continuato ad esserlo. Marco Dolfin era appena tornato dal viaggio di nozze e alla sua seconda settimana di lavoro come chirurgo ortopedico al San Giovanni Bosco di Torino, quando venne coinvolto in un incidente, a causa di un’auto che andava in contromano. Era l’11 ottobre del 2011. Grazie alla moglie Samantha, che lo ha sempre incoraggiato, e al suo spirito combattivo (è un atleta Paralimpico), progetta, con il suo ortopedico di fiducia, una carrozzina che si alza e gli permette di operare.
Era un medico ortopedico ed ha continuato ad esserlo.
Com’è stato svegliarsi e capire di non poter più camminare?
«Passato il primo naturale momento di disperazione, mi sono concentrato non su quanto avevo perso ma su ciò che mi restava e ho ricominciato da quello. Tanta terapia motoria e riabilitazione, per recuperare il possibile e tornare alla mia vita. Non quella di prima, lo sapevo, ma comunque una vita nella quale essere un soggetto attivo e non passivo».
Quanto è contato nella vita lo spirito di competizione?
«Tantissimo. Sono sempre stato molto competitivo e questo mi è stato d’aiuto. Sia quando non ho avuto dubbi sul non abbandonare la mia professione e cercare in tutti i modi una soluzione che mi permettesse di continuare ad operare nonostante la paraplegia, sia poi nello sport».
Si trova ad operare pazienti con patologie simile alle sue. Che emozioni le suscitano?
«Quando sono medico, sono essenzialmente medico. E questo i pazienti lo percepiscono perché, dopo il primo momento di sorpresa, la carrozzina scompare. Piuttosto, forse è il “durante” che è diverso perché, chi è stato a sua volta su un letto di ospedale, sviluppa una particolare empatia con chi vive un momento di fragilità e malattia».
E’ stato complicato far accettare l’esoscheletro a colleghi e dirigenti medici?
«In realtà è stato anche questo un passaggio graduale ed inevitabile, per cui è stato accettato come una naturale conseguenza del mio operare. Paradossalmente è stato più un problema mio in quanto la mia principale preoccupazione era di essere in tutto e per tutto all’altezza delle responsabilità che stavo assumendo nei confronti dei pazienti».
Famiglia, lavoro, sport: quale tra queste realtà la mette più alla prova?
«Sono le tre cose in assoluto che amo di più, perciò la fatica non la sento e, se la sento, mi impegno ancora di più in modo da superare le difficoltà man mano che si presentano».